Il raid di Doolittle, bombe Usa su Tokyo

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I B 25 sul ponte di volo della portaerei Hornet (foto Us Navy)
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E’ passato alla storia come il raid di Doolittle. Il bombardamento Usa su Tokyo dell’aprile ’42 doveva essere una risposta all’attacco giapponese di Pearl Harbor e dare morale alle truppe americane impegnate nel pacifico con risultati ancora incerti. Fu un’impresa difficile, una missione al termine della quale il ritorno era incerto. Ma si decise di correre ugualmente il rischio: sedici bombardieri dell’USAAF di medie dimensioni come il North American B-25 Mitchell decollarono dal ponte della portaerei USS Hornet per sganciare il loro carico di bombe sulla capitale giapponese. Non c’era carburante abbastanza per rientrare. Gli equipaggi sapevano che era una missione di sola andata.

James Doolittle, ideatore del raid su Tokyo

James Doolittle

L’incursione fu pianificata e condotta dal tenente colonnello Jimmy Doolittle, un famoso aviatore e ingegnere aeronautico civile prima della guerra. Doolittle fu l’uomo che mise in pratica la ‘pazza idea’ del capitano della Us Navy, Francis Low: far decollare un bombardiere bimotore dal ponte di una portaerei. L’aereo scelto fu il B-25 Mitchell.

Sedici aerei, con 80 uomini di equipaggio (5 per bimotore) che si offrirono volontari per la missione. Furono addestrati segretamente dal 9 al 25 marzo nella base di Eglin in Florida, l’1 aprile 42 aerei ed equipaggi furono imbarcati sulla portaerei Hornet ad Alameda, in California. Gli aerei erano stati alleggeriti e modificati per permettere il decollo dalla portaerei e per consumare meno carburante possibile sulla via del ritorno. Era stato rimosso anche il mirino di precisione Norden, per evitare che cadesse in mani nemiche. Venne sostituito con uno strumento più semplice. Ogni aereo trasportava 4 bombe da circa 500 libbre (230 kg), due mitragliatrici calibro 50 nella torretta dorsale, una Browning M1919 calibro 30-06 nel muso e taniche di carburante extra. Le armi di coda vennero rimpiazzate con dei simulacri di legno. Gli aerei furono caricati e disposti sul ponte di volo della Hornet nello stesso ordine in cui poi sarebbero partiti. La portaerei salpò da Alameda il 2 aprile e pochi giorni si unì alla Enterprise e alla sua scorta di incrociatori e cacciatorpediniere. I caccia della Enterprise avrebbero fornito la scorta necessaria (quelli della Hornet erano stati stivati sotto il ponte per far posto ai B-25). Le due portaerei e le navi di scorta procedettero quindi in silenzio radio fino al punto di lancio all’interno delle acque controllate dai giapponesi.

L'equipaggio del B25 di Doolittle da sinistra: Lt. Henry A. Potter, Lt. Col. James "Jimmy" Doolittle, Staff Sgt. Fred A. Braemer, Lt. Richard E. Cole and Staff Sgt. Paul J. Leonard (foto Usaf/National Museum of the U.S. Air Force)

L’equipaggio del B25 di Doolittle da sinistra: Lt. Henry A. Potter, Lt. Col. James “Jimmy” Doolittle, Staff Sgt. Fred A. Braemer, Lt. Richard E. Cole and Staff Sgt. Paul J. Leonard (foto Usaf/National Museum of the U.S. Air Force)

Il raid di Doolittle prende il via

Il 18 aprile, a circa 1.200 chilometri dal Giappone, la squadra navale viene avvistata da una vedetta giapponese, che riuscì comunque a dare l’allarme radio prima di essere distrutta da un cacciatorpediniere della scorta. A quel punto, Doolittle e il comandante della Hornet, il capitano Marc Mitscher, decisero di far decollare subito i bombardieri, con un giorno di anticipo e circa 370 km più lontano dal punto previsto. Tutti gli aerei decollarono e volarono a bassa quota fino al Giappone; sganciarono su obiettivi militari (furono colpiti anche obiettivi insediamenti civili) a Tokyo, Yokohama, Kōbe, Osaka e Nagoya. Dopo il bombardamento volarono sul mar Cinese Orientale, diretti in Cina, dove erano state allestite apposite basi di supporto.

Il decollo a tutto gas del Lt. Col. James "Jimmy" Doolittle dal ponte della Hornet 650 miles from Japan on a secret mission. (Photo Usaf/National Museum of the U.S. Air Force)

Il decollo a tutto gas del Lt. Col. James “Jimmy” Doolittle dal ponte della Hornet. (Photo Usaf/National Museum of the U.S. Air Force)

Durante il volo verso la Cina incontrarono però molte difficoltà: il sole stava tramontando, il carburante era in esaurimento e le condizioni meteo stavano rapidamente peggiorando. A causa di tutti questi problemi gli equipaggi capirono che probabilmente non sarebbero mai riusciti a raggiungere le basi di supporto, rimanendo nel dubbio se lanciarsi sopra la Cina orientale o tentare un atterraggio di fortuna sulle coste cinesi. Quindici equipaggi scelsero di lanciarsi; uno invece, nonostante il consiglio contrario di Doolittle, atterrò con successo a Vladivostok, in Russia, dove il B-25 fu sequestrato e i membri dell’equipaggio internati. Rimasero imprigionati fino al 1943, quando furono trasferiti ad Ashgabat, in Turkmenistan, dove di nascosto l’NKVD rilasciò i piloti che attraversarono il confine con l’Iran (L’operazione venne tenuta segreta visto che l’Urss aveva siglato un patto di non aggressione con il Giappone). Doolittle e i suoi uomini, dopo esser atterrati con il paracadute in Cina, ricevettero assistenza dal missionario americano John Birch.

Dopo l’attacco, molti degli equipaggi, che si lanciarono sulla Cina atterrarono senza problemi; due (10 uomini in tutto) furono però catturati. Il 15 agosto 1942 gli Stati Uniti seppero dal consolato svizzero di Shanghai che 8 dei 10 uomini erano prigionieri dei giapponesi; gli altri due erano morti nell’atterraggio. Il 19 ottobre 1942 i giapponesi diramarono un annuncio, privo di nomi e di altri dettagli, in cui affermavano di aver processato gli equipaggi e di averli condannati a morte, ma ad alcuni di loro la pena fu commutata nel carcere a vita.

La vera storia degli equipaggi catturati

Il poster della propaganda Usa dopo l'uccisione dei raiders da parte dei giapponesi

Il poster della propaganda Usa dopo l’uccisione dei raiders da parte dei giapponesi

Dopo la guerra, la storia dei prigionieri venne alla luce durante un processo per crimini di guerra tenutosi a Shanghai, in cui quattro ufficiali giapponesi dovettero rispondere all’accusa di maltrattamenti sugli otto americani catturati, Hallmark, Robert J. Meder, Nielsen, Farrow, Hite, Barr, Spatz e DeShazer. Gli altri due presenti a bordo, Dieter e Fitzmaurice, erano morti lanciandosi dal loro B-25 sulle coste della Cina. Oltre alle torture e alla fame, i prigionieri contrassero la dissenteria e il beriberi a causa delle pessime condizioni in cui venivano detenuti. Il 28 agosto 1942 i piloti Hallmark e Farrow e il mitragliere Spatz subirono un processo-farsa, di cui nessuno li informò. Il 14 ottobre vennero informati che il giorno dopo sarebbero stati giustiziati. Alle 16:30 del 15 ottobre, caricati a bordo di un camion, i tre furono trasferiti nel cimitero pubblico e vennero sottoposti a fucilazione.

Gli altri cinque rimasero nella prigione militare e la loro salute peggiorò rapidamente per la denutrizione. Nell’aprile del 1943 furono trasferiti a Nanchino, dove il 1º dicembre Meder morì per gli abusi subiti. I quattro rimanenti cominciarono a ricevere un trattamento leggermente migliore: fu consegnata loro anche una copia della Bibbia e pochi altri libri. Furono liberati dalle truppe americane nell’agosto del 1945. I 4 ufficiali giapponesi processati furono giudicati colpevoli: tre furono condannati a 5 anni di lavori forzati, mentre il quarto a 9 anni. Un altro dei raider (come vennero in seguito chiamati i partecipanti del raid) fu ucciso durante il lancio con il paracadute sulla Cina.

Dopo il raid di Doolittle, il morale delle truppe

Marines impegnati nella guerra del Pacifico

Marines impegnati nella guerra del Pacifico (National Archives)

L’operazione fu un successo; Doolittle venne insignito della Medal of Honor dal presidente Roosevelt ed ebbe una doppia promozione fino al grado di brigadiere generale, saltando il grado di colonnello. Gli furono assegnati i comandi della 12th Air Force in Nord Africa, la 15th Air Force nel Mediterraneo e l’8th Air Force in Inghilterra nei successivi tre anni. Oltre alla medaglia d’onore di Doolittle, il mitragliere-ingegnere caporale Dave Thatcher ricevette la Silver Star; tutti gli altri furono premiati con la Distinguished Flying Cross e quelli che furono feriti o uccisi ricevettero la Purple Heart. Inoltre tutti i raider ricevettero una decorazione dal governo cinese.

I danni materiali provocati dal bombardamento furono poca cosa rispetto a quelli che i B29 Superfortress provocheranno qualche anno dopo, ma il raid di Doolittle fu molto enfatizzato dalla propaganda Usa, sollevando il morale delle truppe dopo il devastante attacco a Pearl Harbor e l’avanzata giapponese nel Pacifico.

Il B25 Mitchell, scheda tecnica

B25 Mitchell in volo nel 65 anniversario del Raid (foto Usaf)

B25 Mitchell in volo nel 65 anniversario del Raid (foto Usaf)

Il B-25 Mitchell era un bombardiere medio bimotore monoplano ad ala media, sviluppato dalla North American Aviation nei tardi anni trenta, considerato come uno dei migliori bombardieri medi del conflitto. Portava il nome del generale Billy Mitchell, uno dei primi grandi sostenitori dell’utilizzo della forza aerea per scopi militari.

Ne furono costruiti circa 10 000 esemplari, comprese le versioni PBJ-1 da pattugliamento navale e F-10 da ricognizione. Fu impiegato in tutti i teatri operativi da diversi paesi, tra cui la Gran Bretagna (che ne ricevette più di 900), l’Australia, la Cina, i Paesi Bassi, e l’Unione Sovietica.

Insieme al Martin B-26 Marauder, la produzione del B-25 iniziò nel 1939. A causa del grandissimo bisogno di bombardieri medi, non furono costruite versioni sperimentali e tutte le modifiche che si rendevano necessarie venivano fatte direttamente in fase di produzione o, per i modelli già esistenti, in appositi centri.

Il primo gruppo operativo a bordo del B-25 fu il 17th Bomb Group che lo ricevette nella versione A nel 1941; fu da questo reparto che vennero scelti i 16 aerei che portarono a termine l’incursione aerea su Tokyo, il 18 aprile 1942.

I B25 Mitchell al decollo dal ponte di volo della portaerei Hornet (foto Us Navy)

I B25 Mitchell al decollo dal ponte di volo della portaerei Hornet (foto Us Navy)

Anche se era progettato per bombardare da quote medie e in volo livellato, nel teatro del Pacifico fu spesso utilizzato in missioni di mitragliamento a bassa quota contro aeroporti, basi e navi giapponesi. Dal bisogno di un aereo apposito per i mitragliamenti nacque il B-25G: al posto del muso trasparente erano fissate due mitragliatrici di calibro 0.50 e un cannone M4 da 75mm, l’arma con il maggior calibro usata su un bombardiere Americano. Il cannone da 75 veniva ricaricato manualmente dal navigatore che doveva stare nel muso senza finestrini con il fumo della polvere da sparo e doveva anche controllare costantemente la culatta del cannone mentre indietreggiava e stare attento ai bossoli incandescenti che venivano espulsi. I proiettili pesavano circa 6 chili ciascuno e ne venivano trasportati massimo 21. Il successore del B-25G, il B-25H, disponeva di una potenza di fuoco ancora maggiore: il cannone M4 fu sostituito con un’arma più moderna e leggera e nel muso furono montate altre 8 mitragliatrici (di cui 4 fissate in apposite carenature nella fusoliera), che si aggiungevano a quelle difensive. Questa versione fu pensata appositamente per attaccare le navi. In tutto furono costruiti 1.400 B-25G ed H.

Il Mitchell operò su tutti i fronti del conflitto: da quello del Pacifico, in cui si rivelò un’arma fondamentale, a quello Europeo, dove, a partire dallo sbarco anglo-americano in Algeria e Marocco, sganciò complessivamente circa 84.980 tonnellate di bombe e abbatté 193 aerei nemici, compiendo circa 63.177 missioni.

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Seconda guerra
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